UNO, NESSUNO E CENTOMILA

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Produzione ABC Produzioni e ATA Carlentini

Di Luigi Pirandello
Regia Antonello Capodici
Con Pippo Pattavina, Marianella Bargilli, Rosario Minardi, Giampaolo Romania, Mario Opinato
Costumi Sartoria Pipi Palermo
Assistente alla regia Alessia Zarcone
Musiche originali Mario Incudine
Scene Salvo Manciagli

durata: 120 minuti in due atti

In scena una ironica, moderna, divertente, umoristica, spiritosa, paradossale, leggera, istrionica, versione teatrale del capolavoro di Luigi Pirandello: il suo romanzo per antonomasia. Pubblicato nel ’25 a puntate, in versione definitiva l’anno dopo, ma iniziato nel decennio precedente, l’ultimo romanzo del Genio agrigentino è la summa del suo pensiero, della sua sterminata riflessione sull’Essere e sull’Apparire, sulla Società e l’Individuo, sulla Natura e la Forma. L’Autore stesso, in una lettera autobiografica, lo definisce come il romanzo “più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”.

Attualissimo, nella descrizione della perdita di senso che l’Uomo contemporaneo subisce a fronte del sovrabbondare dei grandi sistemi antropologici e sociali, che finiscono con l’annullarlo, inglobandolo: dallo Stato alla Famiglia, dall’istituto del Matrimonio al Capitalismo, dalla Ragione alla Follia.

La scena è abbacinante. Di un bianco perfetto, luminoso, totale. Una scatola bianca. Ricorda lo spazio scenico che Bicchi ha disegnato per “Lehman Trilogy” di Ronconi. Ma ad una visione più attenta capiremo che le pareti non sono così “innocenti” come sembrano. Un’overture dalla quale si dipanano sia la vicenda che il suo commento. Siamo in molti luoghi, cioè in nessuno. La mente del Protagonista, certo. Ma anche una cella, una stanza d’ospedale o di manicomio. È un luogo “non-luogo”, che però si riempie subito di visioni. Ecco, allora, che le pareti della scatola, risultano sì bianche, ma come calcinate. Intonacate da materiale denso, grumoso, impervio.

Su queste superfici proiettiamo dense pennellate che rimandano ai quadri/installazioni di Fausto Fiato o Elena Ciampi: diventano luminescenti. Irreali. Riverberano di colori acidi e contrasti. Via via, il monologo si trasforma in “piece” vera e propria. Spettacolo. Commedia. Da ampie aperture laterali (simili a saracinesche) carrellano in scena i vari ambienti. Insieme ai personaggi che li animano: la casa di Gegè, gli uffici della Banca, il Convento di Maria Rosa, la casa dei Di Dio, la stanza d’ospedale, la strada. I personaggi sono grotteschi, iperrealistici: Firbo, Quantorzo, Dida, Maria Rosa, il Padre, Marco Di Dio e Diamante, il Notaio Stampa, Padre Sclepis, il Giudice, il Suocero. Vitangelo ha pure il suo doppio in scena: un Gegè anagraficamente in “parte”; alcuni episodi sono “vissuti” da questa proiezione giovanile, altri da Vitangelo maturo, in un gioco drammaturgico e scenico di incastri e rimandi. L’eleganza formale di un Maestro come Pattavina: spensierato narratore in “flash-back”. Furente doppio di sé stesso nelle vicende più dolorose. In questo auto-sostituirsi, c’è persino il possibile riscatto all’impotenza originaria, all’inanità di una esistenza precedente, inconsapevolmente sprecata. Ed il “femminile”, mutevole, soggiogante, oscuro ed ambiguo: la bravura di Marianella Bargilli, inquieta ed inquietante. Perfetta nel travasare elementi di contrasto di un personaggio nell’alchimia dell’altro Gli attori, volutamente, si trasformano in una sequenza di personaggi, traghettando, dall’uno all’altro, le caratteristiche comuni, i caratteri più evidentemente condivisi. Così, in un evocativo esperimento alla “Moreno”, Pattavina – a colloquio con il “sé stesso” Gegè – diventa il suo proprio Padre e poi Suocero. L’attore che interpreta Firbo diventa il Notaio Stampa e poi Padre Sclepis. Quello che interpreta Quantorzo, poi il Vescovo, ed il Giudice. Una sola attrice interpreta sia Dida (ingenuamente provocante, nelle lecite vesti di moglie legittima) che Maria Rosa, provocantemente ingenua, in maniera speculare, costretta com’è nel suo disturbo “evitante”. A proposito del termine “evitamento”, concludo con una considerazione sulla natura “psicoanalitica” del romanzo. Certo, l’impianto narrativo tradizionale, lo colloca nel solco delle produzioni “borghesi” di Pirandello, lontano – per esempio – dalla rivoluzione “meta teatrale” della Trilogia. Ma la struttura drammaturgica non tragga in inganno: ribolle delle stesse ferocie familiari che hanno reso l’Autore, l’intelligenza più acuta, crudele, definitiva di tutto il Novecento. Oggi parleremmo di “disfunzionalità” e “disturbi del comportamento”. Pirandello, infatti, anticipando di decenni le conclusioni della “Gestalt”, descrive, in realtà, dei sintomi. Scopre – fra le pieghe di un apparente “feuilleton” – una vasta rete di disturbi e nevrosi, epitome di un più ampio malessere, che contagia le società moderne come, tutt’oggi, le intendiamo. Sono tratti di personalità istrioniche; disturbi “border-line”; disturbi ego-sintonici, che i personaggi del dramma hanno tramutato in manie compulsive, in ansie da controllo. Disfunzionalità dell’umore. Bipolarismo. Rimane, infine, la libertà del racconto. La forza redentrice del relativismo, il sollievo del ridicolo. Narrazione /interpretazione/ esposizione affidata ad un “mostro” di tecnica come Pattavina, ma anche al moderno azzardo di un Compagnia giovane ma talentuosissima. Le atmosfere oniriche, le evocazioni. Lo smobilitamento finale del trauma, che rimanda alle moderne tecniche dell’MDR.